Un impianto di biogas di piccola taglia che utilizza un digestore innovativo e che si adatta a utenze di piccole dimensioni. È quello presentato nel corso del Forum Qualenergia a Roma lo scorso mese dall’ingegner Marco Baudino, Ceo e direttore tecnico della Future Power.
A margine del suo intervento nel corso dell’evento gli abbiamo chiesto quali siano in sintesi gli aspetti innovativi di quest’impianto.
«L’impianto sfrutta il processo di digestione anaerobica con un’impostazione che permette alte efficienze e semplicità di esecuzione. Il biogas si estrae, infatti, esclusivamente dalla sostanza organica secca, cioè non ulteriormente diluita nell’acqua perché sfrutta l’acqua già naturalmente presente nelle molecole organiche, concentrando il lavoro dei batteri anaerobici. Si registrano quindi più alte percentuali di metano e perciò maggiori rese. Il metano così ricavato è poi indirizzato nella camera di combustione di un motore endotermico direttamente calettato ad alternatore: dallo scarto organico all’elettricità».
Le potenza sono basse. E qual è la sua potenziale produzione?
«L’impianto base, con una potenza elettrica installata di 100 kW, produce in continuo, cioè circa 8000 ore e genera circa 800.000 kWh di energia elettrica e termica ogni anno, utilizzando 2000 tonnellate annue di materiale organico, da riutilizzare poi come ammendante. L’impianto è modulabile, adattandosi alle variabili esigenze del cliente-produttore».
Si possono utilizzare questi impianti anche per situazioni diversificate e/o integrate?
«L’impianto base è stato pensato innanzitutto per utenze medio-piccole, ed è alloggiabile in un quadrato di lato 20 metri. Quindi può indirizzarsi certamente a vari clienti del tessuto urbano come mercati e centri commerciali, ristorazione, alberghi e residences, ma può servire molto bene anche per alimentare utenze isolata, come ad esempio le aziende agro-zootecniche. L’aspetto più rilevante per noi è quindi la sua flessibilità. Può essere installato in qualunque comune d’Italia, anche il più sperduto paesino, come anche nel retro di un ipermercato alimentare. L’impatto visivo e olfattivo è nullo, perché ha piccole dimensioni ed è innovativo nel processo».
Che sviluppi può avere secondo voi?
«Visto che è così adattabile, si candida ad essere uno degli impianti più idonei per la figura dei “producer” e delle reti secondarie chiuse, ossia quelle fra utenti e utilizzatori consorziati: le cosiddette isole energetiche o comunità dell’energia. In questo caso è interessante il possibile abbinamento con le colonnine di ricarica per la mobilità elettrica, anche in città. Si tratta di un passaggio importante perché si offre, ad esempio, l’opportunità di un’alimentazione permanente verso i punti di ricarica delle auto elettriche, abbinati a stazioni di accumulo ad isola».
L’impianto è una sorta di ponte naturale fra il settore ambientale e quello energetico…
«Rappresenta senz’altro un esempio di economia circolare, visto che riprende, accelerandone il procedimento, il comportamento della natura nel processo di decomposizione di prodotti organici. E nel nostro caso non li chiamerei neanche più rifiuti, bensì sottoprodotti, in quanto danno vita a due effetti: la raccolta del metano naturalmente emesso durante la loro decomposizione, ottimo combustibile diretto per impianti di cogenerazione ad alta efficienza, e la stabilizzazione della materia organica trattata che possiede un alto carico di fertilità biologica, necessario al mantenimento della biodiversità dei suoli e del loro recupero».
Come utilizzerete il digestato?
«Questo materiale, fermentato e stabilizzato, possiede un elevato valore commerciale perché capace di rifertilizzare i terreni sottoposti a grossi stress o a fenomeni di desertificazione a seguito di eventi estremi e della coltivazione chimica intensiva. Sull’altro fronte, quello della produzione-trasformazione, abbiamo energia elettrica e termica da impiegare in usi singoli, in illuminazione, in teleriscaldamento, in mobilità. In effetti stiamo assistendo e partecipando ad una vera rivoluzione tecnologica che vede, con la progressiva diffusione degli impianti rinnovabili di piccola taglia come il nostro, la trasformazione del sistema elettrico da pochi soggetti fornitori, proprietari delle mastodontiche centrali, ad un sistema molto più aperto e democratico, basato sull’autogestione di una molteplicità di impianti diffusi e replicabili».
Secondo la sua esperienza la diffusione di questa tipologia di impianto da cosa sarebbe frenata?
«Oggi solo dalla mancanza di conoscenza. Ma anche dalla convinzione, tipica della economia lineare, legata a vecchi e ormai sorpassati concetti di gigantismo impiantistico, dove la dimensione e la quantità prevalgono sull’efficienza e sulla qualità. Il futuro è a dimensione di consumatore: è l’impianto che si adatta al territorio e non il territorio che si sacrifica per gli affari! La tecnologia deve essere direttamente al servizio della comunità, ognuna con il suo proprio impianto, in competizione costruttiva e integrativa, dove le opzioni di acquisto e di funzionamento degli impianti sono dettate dalle scelte del singolo utente, un piccolo comune, un’azienda zootecnica o un consorzio di consumatori. Non devono essere calate dall’alto. Comunità che insieme operano per una economia più redditizia rispetto a quella tradizionale perché non produce sprechi. Si tratta di un principio olistico, sistemico: tutto l’insieme fa molto di più della semplice somma algebrica delle singole parti».
C’è un problema di incentivi visto il mancato rinnovo del decreto rinnovabili e della contestuale impegno di risorse più a favore del biometano immesso in rete?
«Innanzitutto il mancato rinnovo del decreto è solo temporaneo. Verrà pubblicato a breve, riportando gli incentivi alla produzione di energia elettrica con impianti di piccole dimensioni. Il fatto che siano stati attivati gli incentivi al biometano ad impianti più grossi e con efficienze specifiche inferiori, non deve inficiare il principio olistico di cui parlavo. E questo è tanto più valido nel territorio Italiano caratterizzato da eccellenze locali, ma anche da difficoltà geologiche e geografiche tipiche della configurazione del nostro Paese».
La Future Power ha qualche progetto in corso?
«Assolutamente sì. In un quartiere periferico di una grande città, in una piccola isola Italiana, in una valle di montagna, dove gli allevamenti sono cresciuti enormemente, in valli che non sono più in grado di assorbire le deiezioni, troppo concentrate e in terreni ormai vulnerabili. Sottrarre carico organico ad aree troppo limitate ha lo stesso valore di dare carico organico a suoli in via di impoverimento e desertificazione. In Italia c’è l’uno e l‘altro. La nostra soluzione può contribuire ad equilibrare le cose. Occorre spiegarlo bene a coloro che studiano le regole e le traducono in leggi, spesso condizionati, ripeto, da vecchi schemi lineari. E a cui si dà ancora troppo credito. Ma le cose stanno cambiando, se non altro perché ne siamo costretti ormai».
Fonte: QualEnergia
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